venerdì 18 luglio 2008

NON APRITE QUELL'ARMADIO

Gli spazi a Tokyo sono quelli che sono: d’altronde non si può pretendere che più di 12 milioni di persone possano tutte trovare bi o trilocali disponibili. Prendete me, ad esempio: mi sono accontentato dei miei 14 m² (bagno compreso) e non mi lamento. Ci sono però delle situazioni limite degne di una sceneggiatura cinematografica, prima fra tutte l’arresto di una clochard di 58 anni. L’accusa? Appropriazione indebita di armadio. La donna avrebbe infatti vissuto per diversi mesi all’interno di un armadio di un uomo, uscendone unicamente quando l’ospite andava al lavoro. Solo dopo diverso tempo, insospettito da qualche mancanza di cibo nel frigorifero, l’uomo ha pensato bene di installare una piccola videocamera a circuito chiuso per “stanare” l’intruso. Ricevuta l’immagine di un ombra che si aggirava per casa direttamente sul suo telefonino, ha subito chiamato la polizia. La povera homeless è stata scoperta all’interno dell’armadio, dove aveva sistemato perfino un piccolo materasso. E meno male che io l’armadio non ce l’ho nemmeno.
(Tokyo, 27 giugno 2008)

martedì 15 luglio 2008

A QUALCUNO PIACE CARO

da Osaka, Paolo Soldano

(pubblicato su "Left" numero 47 il 23 novembre 2007)

Sono fermi agli angoli delle principali strade di Osaka, soprattutto nelle zone di Umeda e Shinsaibashi. Sembrano ragazzi come tanti altri, se non fosse per quel loro essere sempre in gruppi di due, massimo tre, vestire in maniera assolutamente perfetta - completo nero o bianco, scarpe a punta, lunghi capelli impomatati e falsamente ribelli - lo sguardo in perenne ricerca di ragazze alle quali proporsi: sono gli “intrattenitori” per sole donne, gli “host” (“hosto” per i giapponesi), moderne “geishe” al maschile.
Grazie a loro molte si sentono circondate, amate, volute, capite, desiderate.
E soprattutto, rispettate.
Per chi frequenta questi posti l’uomo è essenzialmente un prodotto, una merce: si sceglie da un menù in base a delle foto, esattamente come in un ristorante o in un bar, a seconda della bellezza, della descrizione, del prezzo.
E il gioco può cominciare.
Ci sono circa 100 host club nella sola Osaka, di cui solo una decina molto popolari. L’Easy è uno di questi.
Mio Asahina, 24 anni, capelli biondicci e sigaretta perennemente accesa, ne è il vicedirettore. Vanta 50 ragazzi sotto di sé, tutti tra i 18 e i 35 anni, che ruotano dalle 9 di sera alle 11 di mattina, l’ora di chiusura.

Da quanto tempo lavori all‘Easy?
Da tre anni. Prima il titolare di questo club [che ci vieta di fare foto per non imbarazzare le clienti] lavorava in un bar di Tokyo, dove l’ho conosciuto. Poi lui ha deciso di aprire un locale tutto suo a Osaka e io l’ho seguito.
Ti sei mai chiesto perché le donne vengono qui?
Penso che sia soprattutto per una questione di solitudine: vivere in una grande città e non avere con chi parlare fa il resto. In Giappone si dice “le persone sostengono le persone”.
Quando non le hai, però, non ti resta che pagare per averle, e anche tanto.
Una bottiglia di champagne costa mediamente tra i 250 e i 600 euro, ma le più care possono arrivare anche a 5.000. Negli ultimi tempi i prezzi stanno scendendo, sia a causa della concorrenza, sia per invogliare quante più donne possibili ad andare negli host club.
Chi riesce a spendere un intero stipendio medio in una sola serata, comunque, non manca mai.
Quanti anni hanno le donne che frequentano il club?
Ci sono donne dai 18 anni in su. Fino a quelle che potremmo chiamare “nonne”.
E che lavoro fanno per potersi permettere tutto questo?
Non ne sono molto sicuro, perché non chiedo mai del loro lavoro. Comunque ci sono casalinghe, impiegate. Penso che ci siano molte ragazze che fanno il nostro stesso mestiere.

La realtà, che Mio si guarda bene dal dire, è che quelle che spendono di più non sono solo hostess, ma soprattutto prostitute che cercano di “rilassarsi” in compagnia di uomini che le facciano divertire e che non chiedano loro del sesso. Il giro della prostituzione, dei “massaggi” e dei club per soli uomini alimenta un enorme business, una parte del quale finisce nelle tasche di giovani, come Mio, che non sanno neanche che farsene di tutti quei soldi.

Quanto guadagni in media in un anno?
Trenta milioni di yen [circa 180.000 euro]
Il tuo record mensile?
8 milioni di yen [48.000 euro]
Hai mai ricevuto dei regali dalle donne che frequentano questo locale?
No, niente regali dalle donne. L’agenzia non lo permette.

Ma altre sì: alcuni host hanno ricevuto gioielli, macchine, perfino appartamenti.
Cosa fai con il tuo stipendio?
Spendo tutto quello che guadagno, non ho messo da parte niente. Do qualche milione ai miei genitori, dopodichè faccio regali e compro le cose che mi piacciono. Non sono un tipo che risparmia.
Per quanto tempo continuerai a fare questo lavoro?
Non ho ancora deciso, e non voglio fissare una data. Finché le donne mi cercano e desiderano la mia compagnia continuerò a lavorare. Quando non mi vorranno più comincerò a pensare che è venuto il momento di smettere. Dopodichè voglio dedicarmi ad altro, aprire un locale ma diverso da questo.

Il talento dell’host sta nel capire i bisogni delle donne: deve soddisfare i loro bisogni, i loro desideri. La qualità essenziale è essere dei buoni parlatori e l’aspetto fisico non è così importante come si potrebbe credere. La cosa fondamentale è capire chi si ha di fronte, e circondarla di attenzioni.
“Divertirsi facendo soldi” è uno dei motti degli host, e non stupisce che ogni anno siano centinaia i pretendenti nella sola Osaka.
Ma i facili guadagni, le donne e l’alcol, sono solo alcune delle motivazioni che spingono i giovani a voler essere intrattenitori.

Come hai iniziato a lavorare come “Hosto”?
Prima facevo il facchino per un’azienda giapponese e avevo una ragazza che amavo molto. Quando lei mi ha lasciato ero distrutto, e volevo farle vedere chi ero. Ho iniziato così, ed ora eccomi qui.
Cosa fai al lavoro?
Sono un tipo che parla molto, anche perché penso che il mio lavoro consista soprattutto in questo. Se vedo che invece è la cliente a voler parlare mi trasformo in un buon ascoltatore. Cerco sempre di soddisfare al massimo le donne che vengono qui: devono provare un gusto particolare ed essere felici di stare con me.
Bere tutte le sere ti crea problemi di salute?
Bere fa parte del nostro lavoro, esattamente quanto il parlare. Dobbiamo bere molto anche per incentivare le donne a farlo. Poi è normale vomitare e ricominciare a bere. Qualche volta ci ubriachiamo.
Molti ragazzi si trasformano in confidenti, che appoggiano i progetti e le aspettative delle clienti. In questo modo si crea una vera e propria dipendenza, ben più profonda rispetto al semplice “passare una serata in compagnia”. Gli host possono essere molto diretti, e oltre a coprirle di complimenti, dicono alle ragazze come dovrebbero comportarsi o cosa dovrebbero fare. Danno loro dei consigli e dei suggerimenti pratici per affrontare la vita quotidiana.
La realtà si mischia così con la fantasia e il sogno, e molte prendono decisioni importanti, o lasciano il fidanzato, solo perché è l’host che gliel’ha consigliato.
Ci sono perfino dei posti speciali, all’interno dei club, dove si spende anche 50 euro per passare una sola ora in compagnia, senza essere visti dagli altri. E non è una questione di sesso, nella maggior parte dei casi, perché il sesso è vietato all’interno dei locali.
Ti sei mai innamorato di una delle clienti?
Si, qualche volta succede. Capita magari che sia molto carina, ti piaccia molto e quindi ti innamori.
Cosa fate in questi casi?
Quello che fanno di solito tutte le coppie: usciamo insieme, andiamo in giro, al cinema, a cena. Tutto quello che fanno le coppie normali.
E non sono gelose?
Dal momento che faccio il mestiere dell’intrattenitore le ragazze devono capire che si tratta di lavoro, dunque dico loro di non essere gelose. Altrimenti è davvero difficile.
Tu sei geloso?
Sì, lo sono.
Hai una fidanzata al momento?
No, ora no.
L’host è un regalo, un regalo che parla, che sta zitto quando deve, che ascolta, che beve, che balla, che canta, che fa tutto quello che vuoi: basta pagare il suo tempo, il suo corpo, la sua voce. Questo la maggior parte delle ragazze lo sa, ma è un gioco da cui è difficile staccarsi. Novelli Peter Pan, gli host portano le clienti in un mondo che non esiste, un mondo che fluttua a mezz’aria e non è da nessuna parte, una bolla di sapone alimentata a yen. È un mondo di illusioni, dove la merce principale è il sogno. La bugia, la regola.
Se fossero onesti, d’altronde, quasi certamente molte donne li odierebbero.


giovedì 10 luglio 2008

38 CENTIMETRI DI FIDANZATA

La patria della robotica e della tecnologia ha sfornato un altro gioiellino di meccanica avanzata: EMA (Eternal Maiden Actualization) conosciuto anche come “il robot fidanzata”. Una volta impostato sulla “modalità amore”, EMA riconosce il viso della persona che gli si accosta e bacia a comando. Alto 38 centimetri, il nuovo robot uscirà a settembre e costerà la modica cifra di 175 dollari. Secondo le previsioni, in Giappone verranno venduti 10.000 pezzi solo nel primo anno. Non ho ancora capito come un affarino così piccolo possa riuscire a baciare, ma l’effetto “fidanzatina” è assicurato anche grazie alle altre funzioni: cantare e distribuire biglietti da visita, come ogni fidanzata che si rispetti dovrebbe essere in grado di fare. Il target? Ovviamente uomini soli adulti, che potranno finalmente avere una ragazza portatile da sfoggiare in ogni occasione.
Un personale quanto spassionato consiglio agli omaccioni giapponesi che acquisteranno il prodotto: evitate di portare EMA in Italia. Il nome dell’azienda produttrice - Sega Toys - potrebbe suscitare una certa ilarità.
(Tokyo, 19 giugno 2008)

venerdì 4 luglio 2008

GOKIBURI

Secondo un recente studio del fantomatico Istituto Nazionale della Popolazione e della Ricerca della Sicurezza Sociale (?), sembrerebbe che nel 2006, per la prima volta, le unità familiari composte da un solo individuo siano diventate le sistemazioni più comuni in Giappone, e superino di gran lunga quelle formate da coppie con bambini. Ma in realtà non si è mai veramente soli nelle case giapponesi: esseri geneticamente modificati chiamati gokiburi (letteralmente “blatta, scarafaggio”) fanno compagnia a molti qui. Entrano dalle finestre anche se sono chiuse, scorrazzano indisturbati nelle abitazioni, allietano la visione di tutti (me compreso) con i loro 6/7 centimetri di lunghezza, le loro antenne filiformi e quel colore tra il marroncino e il nero tanto unico quanto disgustoso. Ho provato con spray, trappole, disinfestanti, fino a quella che qui viene chiamata la “bomba”. Ho anche tappato con lo scotch qualsiasi insenatura, spiraglio, buchicino, ma non c’è niente da fare: in media uno al giorno riesce sempre a farmi compagnia. Non mi do per vinto comunque, prima o poi riuscirò a rimanere veramente solo in casa.
(Tokyo, 15 giugno 2008)

mercoledì 2 luglio 2008

WRITER SI DIVENTA

da Tokyo, Paolo Soldano
(pubblicato su "Il Messaggero" il primo luglio 2008)
-versione originale-
Immaginate una coppia giapponese appena sposata , in una delle città più belle del mondo: l’immancabile macchina fotografica, l’indispensabile guida turistica, la felicità di essere a Firenze. Tutto il necessario per una meravigliosa vacanza in Italia. Ma come rendere indimenticabile quei momenti? Immaginate adesso un Paese, come il Giappone, che ha l’onestà e la correttezza tra i pilastri della propria società. Beh, ci sono tutti gli ingredienti per la storia del malcapitato allenatore giapponese di una squadra liceale di baseball, che è stato dimesso dalla sua carica di coach e adesso rischia il posto anche come docente, per aver imbrattato una delle colonne del duomo di Firenze, scrivendo con un pennarello acquistato sul posto il proprio nome, e quello della propria signora, contornando il tutto da un cuore. Il caso, avvenuto a gennaio 2006, è scoppiato due giorni fa, quando è stata pubblicata, sul sito non ufficiale dei tifosi della squadra allenata dal trentenne, una fotografia ritraente le gesta di quello che è diventato il più famoso imbrattatore giapponese. Non è ancora chiaro chi abbia messo la foto in rete, né chi lo abbia denunciato. Sta di fatto che la cosa qui in Giappone ha assunto dimensioni quanto meno sprositate: tutti i media hanno parlato dell’ignobile gesto del connazionale, condannandolo fermamente, e il preside del comprensorio liceale e universitario “Tokiwa”, nella provincia di Ibararaki - vicino a Tokyo – dove prestava servizio l’uomo, non solo lo ha licenziato dalla sua carica di allenatore, ma starebbe addirittura valutando di dimetterlo come professore, secondo quanto ha lui stesso dichiarato ieri durante una conferenza stampa. Il preside ha poi contattato l’Ambasciata italiana a Tokyo per scusarsi e cercare di “rinsaldare” i rapporti tra due Paesi. Nonostante uno dei più importanti quotidiani giapponesi, l’Asahi Shinbun, non sia riuscito a intervistare l’accusato, sono comunque trapelate alcune sue dichiarazioni: “Vicino al Duomo c’era un venditore ambulante che vendeva pennarelli” –ha detto l’ormai ex-allenatore – “è stato lui a dirmi che io e mia moglie saremmo stati felici scrivendo qualcosa”. Non si sa se ciò sia vero, e quanto ci si possa affidare all’ingenuità giapponese. Quello che è certo è che l’innamorato mai avrebbe pensato che un gesto così futile avrebbe portato a conseguenze del genere. “Non ho considerato tanto quello che stavo facendo”- ha infine ammesso. Questo è il terzo caso in pochi giorni di turisti giapponesi denunciati tramite internet dalle implacabili accuse dei connazionali per aver imbrattato il duomo fiorentino. Prima la ragazzina del “Gifu City Women College”, che lo scorso febbraio, durante una gita scolastica, ha pensato bene di immortalare il suo soprannome e quello di 5 sue compagne su uno dei muri dell’osservatorio della Cupola del Brunnelleschi (Mana♥ Chii ♥ Yui ♥Ayana ♥Mika e Miki, questa l’opera d’arte della studentessa, che però non ha avuto l’accortezza di tralasciare il nome abbreviato della propria scuola). Poi l’ammissione di colpevolezza da parte di tre giovani della Kyoto Sangyo University. Infine il caso, più eclatante, del giovane ex- allenatore. In questo turbinio di accuse e clima di caccia alle streghe, si è levata solo la vocina di un media, il Sankei, che per puro spirito di cronaca ha tenuto a precisare che solo circa il 10% delle scritte vandaliche sul duomo fiorentino sono in giapponese. La maggior parte? In italiano, spagnolo e inglese.

CAKE MANIA

da Osaka, Paolo Soldano
(pubblicato su ZoeMagazine, Inverno 2008)



Torte torte torte: tutti pazzi per le torte.
Pasticcerie che sembrano gioiellerie, locali con file all’ingresso, grandi magazzini traboccanti di dolciumi: in Giappone, soprattutto nelle grandi città come Osaka e Tokyo, sembra che la moda dei dolci all’occidentale stia crescendo sempre di più.
II concetto che esprime la cucina giapponese è l'estetica del cibo che mira alla perfezione unita alla massima semplicità. La preparazione degli alimenti tiene presente due regole, cotture brevi e grassi assenti, applicate per conservare intatto il sapore e assicurare la digeribilità.
Sembra però che le cose siano un po’ cambiate, negli ultimi anni, da quando cioè i dolci all’occidentale, opulenti e abbondanti, grondano dagli scaffali di pasticcerie, supermercati e caffé.
Entrando nel piano sotterraneo di un grande magazzino giapponese si è subito investiti dal vociare dei clienti unito ai continui richiami dei commessi, che ogni secondo gridano “Prego!” o “Benvenuto!”. E tutto si trasforma in un enorme, elegantissimo mercato, dove gli odori si mischiano e la mente si confonde tra le centinaia di prodotti offerti. Tutto abbaglia,
colpisce, inebria, avvolge. Tutto incuriosisce, attira, affascina e suscita stupore.
Nulla è lasciato al caso, ogni più piccolo dettaglio è curato, dalla perfetta disposizione con la quale vengono presentati i dolci alle impeccabili divise dei commessi, sorridenti e gentili da contratto.
Ogni torta è fatta rigorosamente a mano, sotto gli occhi dei clienti, sia nei locali che nelle pasticcerie. La frutta, bene prezioso in Giappone, è scelta minuziosamente e disposta con una attenzione sopraffina.
Il cibo, per essere considerato buono, deve infatti essere anche bello da vedere. La cultura dell’estetica non ammette defezioni: per piacere al palato un piatto, che sia di pesce o di ca
rne, di riso o di tagliolini, deve anche piacere all’occhio. Questo vale ancora di più per i dolci.
Tra l’altro la "struttura" di un normale pasto non è basata su una serie di pietanze distinguibili (antipasti, primi, secondi ecc.). S
tesso discorso vale per la divisione dei pasti nell'arco della giornata, nonché per gli orari "tipo" da dedicare a colazioni, pranzi e cene.
Si mangia qualsiasi cosa a qualsiasi ora del giorno e della notte, non c’è alcuna distinzione, complice il fatto che molti ristoranti sparsi ovunque sono aperti 24 ore su 24.
La contaminazione diventa dunque una scelta obbligata, il “fusion” una questione di sopravvivenza commerciale: la concorrenza è spietata, i clienti esigenti, le aspettative sempre più alte.
Esiste per esempio una variante della New York Cheese Cake, venduta in una famosa pasticceria di Osaka, dove l’esclusività del prodotto è data dal fatto che si può reperire solo tra l’una e le cinque del pomeriggio, e che il formaggio utilizzato, tra gli altri, è l’italianissimo Parmigiano Reggiano.
I menù variano il più possibile: ci sono dolci “del giorno”, “di stagione”, “tradizionali”, oltre alle “novità del mese”.


Siamo passati attraverso Halloween, dove non sono mancati i dolci di zucca o a forma di zucca, con l’arancione come colore predominante. E adesso si attende il meraviglio evento super commerciale del Natale, che in Giappone non è altro che uno dei tanti modi per spendere soldi.
Essendo un paese a maggioranza buddista e shintoista, il Natale non è infatti sentito come festa religiosa, ma unicamente “di moda”. Per gran parte dei giapponesi è più importante la Vigilia piuttosto che il 25, quando tutti vanno a lavorare come sempre. E c’è perfino qualcuno convinto che Natale sia il 24.
Tutte le pasticcerie o i grandi magazzini preparano un gran numero di torte e sperano di venderle almeno entro il giorno dopo, in quanto dal 26 dicembre incominciano i preparativi per le feste del ben più sentito, e tradizionale, Capodanno. C’è anche un detto, non molto carino, che paragona l‘età di una donna al Natale, alludendo al fatto che fino a 25 anni è in età da matrimonio, ma dopo quest’età ha bisogno di “grandi sconti” per trovare marito. E non manca il soprannome: le ragazze di questo tipo sono dette “torte natalizie invendute”. Per molte single giapponesi la notte della Vigilia diventa quindi di fondamentale importanza: bisogna scegliere il posto giusto e soprattutto l’uomo giusto con cui andare fuori a cena. La serata deve essere elegante e speciale, oltre che romantica, e molto fa il regalo ricevuto.
Se lo scorso anno la stravagante novità commerciale è stata la torta natalizia dal sorprendente nome di “Diamanti: miracolo della natura”, con 100 piccoli diamanti provenienti dal Sud Africa che impreziosivano il dolce al cioccolato, in vendita in unico esemplare alla “modica” cifra di 100 milioni di yen (circa 600.000 euro), quest’anno cosa ci riserverà
l’inesauribile estro nipponico? Sicuramente qualcosa di ancor più sorprendente.
Ma come fanno le giapponesi a conciliare la loro linea perfetta, frutto di una dieta controllata e rigorosa, con le ipercaloriche porzioni dei dolci?
Semplice. Tutto sta nelle quantità e nell’eleganza.

Quantità, innanzitutto: le torte di qui in molti casi farebbero ridere a un qualsiasi goloso italiano. Spesso sembrano più degli assaggi che delle porzioni.
Eleganza: non c’è praticamente differenza, nei posti più chic, tra andare a fare spese e fare la spesa. Shopping e cibo sembrano la stessa cosa.
La maniacale ossessione nipponica per il packaging ha ovviamente colpito anche le pasticcerie e i caffé: torte e dolcetti sono doppiamente valorizzati dalla confezione che racchiude il tutto. Il sacchetto? In cartone duro, logo della pasticceria in rilievo, manici in corda. Esattamente come

per l’acquisto di una borsa di Gucci.
E non sono solo le donne ad andare matte per queste cose.
Dal momento che, sembrerebbe, molti uomini di mezza età (i famosi “salary men” giapponesi) non amano essere visti mangiare torte e dolciumi vari in pubblico, un fast food aperto due anni fa a Tokyo si è inventato uno strano modo per vendere i propri dolci: farli sembrare hamburger e patatine. I golosoni un po’ timidi possono ora nascondersi dietro la virilità di un panino traboccante salsa o di untuose patatine per assaporare in realtà sapori ben diversi. Ogni prodotto venduto è un dolce, nonostante sembri qualcos’altro: il “pane” è in realtà pan di Spagna, il “ripieno” è di crema a diversi gusti, i “sottaceti” sono pezzi di kiwi.
E pensare che, almeno in teoria, in Giappone non esiste il concetto di dessert come in Occidente.

GUARDAMI, ESISTO

da Osaka, Paolo Soldano
(pubblicato su Left n.31, 3 agosto 2007)


Osaka è una di quelle città dove perdersi è questione di un attimo, basta alzare la testa e tutto si confonde: le scritte diventano uguali, le strade tremendamente simili, punti di riferimento fissati poco prima svaniscono all’istante, in un senso di vertigine che qualche volta spaventa.
Esiste poi un quartiere, a Osaka, che si chiama Shinsaibashi, dove invece per non capire dove si è, e scuotere la testa, basta fermarsi a uno qualsiasi dei suoi angoli, e guardarsi intorno.
Una delle prime impressioni è che qui la moda, o meglio, le varie tendenze giovanili, sia sfuggita di mano un po’ a tutti.
La persistente idea di apparire il più possibile diversi e originali sembra quasi diventata un must, e non solo per le ragazze, ma per tutti quelli che frequentano questa zon
a.
Se da una parte ciò è lodevole, per la fantasia, la voglia di essere diversi e la capacità di inventiva, dall’altra, agli occhi di un occidentale, risulta tutto un po’ costruito, per non dire assurdo: gonnelline, gonnellone e gonnettine di ogni forma, misura, larghezza, lunghezza, colore, trasparenza; scarpe alte, altissime, ancora di più; ombrellini, parasoli, camicette, camicione, tacchi a spillo, pantaloni, pantaloncini -ini
-ini, canottierine -ine -ine; ricamate, a fantasia, a righe, a pois, in tinta unita e chi ne ha più ne metta.
Tra virtuosismi da scuole di moda ed esotismo suburbano, tra abrasioni e generosi lampi di effetti speciali combinati in modo a dir poco sorprendente, è davvero difficile capirci qualcosa: ragazze coperte quel tanto che basta da lasciare almeno un barlume di speranza all’immaginazione maschile, ragazzi che sembrano preoccupati più di “fare lo sguardo giusto” che di guardarsi attorno.
Se una signora di mezza età del Sud Italia riuscisse a vedere tutto questo, un appellativo che userebbe spesso sarebbe “scostumata”. E mai parola risulterebbe più appropriata, soprattutto nel senso letterale del termine, perché da queste parti sembra quasi che l’essere “senza costume”, senza vestito, sia una tendenza che va ben oltre la voglia d’estate. Se si considera anche il portamento, poi, che non è certo dei più signorili, il quadro è dipinto.
Insomma, un immaginifico coacervo di stili, una mirabolante accozzaglia di suggesti
oni pseudo-occidentali e tutte personali.


Ma andiamo per ordine, nonostante non sia così facile farlo in questa che sembra essere una continua, infinita sfilata, che prosegue a qualsiasi ora del giorno e della notte in tutte le sue eccentricità e sbavature.

Ci sono quattro principali “categorie” femminili in mostra nelle vie di Shinsaibashi, escludendo le (poche) “normali”: “neogotiche”, “bambole”, “alternative”, “cotonate”.
Hanno tutte dai 15 ai 25 anni circa, la maggior parte non si fa influenzare dalla moda delle grandi marche, tutte passeggiano in questa zona per uno scopo: apparire.

Rie, 22 anni, “bambola”, mi fa promettere che la sua foto non girerà sul web, perché ha paura che venga usata da brutte persone: “Vengo qui ogni giorno, da sola, per passeggiare e guardarmi in giro. Compro i vestiti che indosso nel negozio dove lavoro come commessa”. I suoi interessi? “Mi piace fare turismo” mi dice sorridente, e non ho il coraggio di chiederle se di solito lo fa vestita così, con l’ampio vestito rosa e nero a pois gonfiato da sottoveste bianca in pizzo
. Il suo sguardo è a dir poco fanciullesco, abbandono l’ironia e mi concentro sulla posa che assume per la foto.
Ci sono poi le neogotiche, colore predominante il nero, largo spazio a piercing, giarrettiere in vista, spesse calze autoreggenti a righe alternate e zeppe: nel loro stile “dark” rivisitato si distinguono subito per la loro eccentricità.
Ben diverse Yoko e Risa, 19 e 20 anni, “alternative”, entrambe di un’altezza vertiginosa anche senza tacchi: “Ci piace venire a Shinsaibashi un paio di volte alla settimana. Non guardiamo mai le riviste di moda, non vogliamo essere influenzate: seguiamo il nostro gusto”, ed è lampante sia così, basta osservarle un paio di secondi per capirlo. “Generalmente compriamo vintage, in un negozio di seconda mano”. Anche i loro interessi seguono questo stile. “Leggo letteratura surrealista giapponese”, mi dice Yoko, la più alta delle due “e adoro De Sade”. A Risa invece piace fare a maglia e leggere fantasy.

È davvero un universo variopinto, questo quartiere.
L’atmosfera è quella tipica dell’immaginario collettivo sul Giappone, un insieme di suggestioni che qui trovano conferma. Centinaia di ristoranti, locali, negozietti sempre aperti, karaoke, bar, love hotel, dvd shop, slot machine, pachinko, club, discoteche si susseguono uno dietro l’altro, e reclamano tutti le loro attrattive, colpendoti con neon luccicanti, con suoni e immagini e ragazzi che urlano invitandoti all’ingresso, o ragazze che sorridono mostrandoti menù e volantini. Fai un passo e si ricomincia, con tutto il gioco di luci, colori e scintillii di lampade intermittenti. Ti chiedi se la prefettura di O
saka abbia indetto un concorso per il locale più appariscente, poi ti rendi conto di essere in Giappone, in una delle città che non dorme mai, la seconda grande metropoli dopo l’inarrivabile Tokyo, e ti rispondi da solo.

Il mio giro prosegue, tra la mini statua della libertà che troneggia sul tetto di un palazzo e il gigantesco neon del “Glico”, l’atleta simbolo del Giappone; mi perdo tra Shinsaibashi Suji, una lunga strada al coperto, e Dotombori, via pedonale che la incrocia, dove si sviluppa la zona dai labili confini di Shinsaibashi, terra conquistata a pieno titolo da “cotonate/abbronzate”.
Accanto a “bambole” e “alternative”, è questa categoria che primeggia indiscussa per numero: moderne lolite che ondeggiano incerte, quasi avessero difficoltà a camminare, scottate da un sole artificiale e pettinate stile Tina Turner anni ‘80.
Chiedo a due di loro, sempre attraverso il mio interprete giapponese, se seguono la moda, e come mi aspettavo mi rispondono di sì. “Veniamo qui per fare shopping due volte alla settimana”. Amano vestirsi bene, guardano le riviste, gli piace una marca in particolare che indossano sempre. Interessi? “Andare nei club e ballare musica psichedelica”. Vorrei chiedere loro perché la maggior parte delle ragazze ha i piedi e le gambe storte, ma il mio interprete sembra imbar
azzato e non traduce, facendomi capire che si sta andando troppo sul personale, e desisto.
Secondo alcuni, comunque, questo modo di camminare non sarebbe altro che un atteggiamento costruito, pensato e messo in atto per sembrare ancora più giovani di quello che sono, ancora più innocenti di quello che possono essere. “Cammino in modo così incerto”, sembrano dire, “perché ho appena imparato a essere una donna: apprezzate la mia ingenuità”.
Ondeggiando di qua e di là come scosse da folate di vento forte, sgargianti ragazzine passano i loro pomeriggi andando su e giù, per lo più serie in volto, con sacchetti, sacchettini e inevitabile cellulare.
Difficile fermarle, difficile parlarci, difficile qualsiasi approccio.
In fondo, sono qui solo essere guardate: solo l’occhio esige la sua parte, a Shinsaibashi.

CENTO YEN SHOP

Dopo due mesi a Tokyo, tra un trasloco e l’altro e l’esigenza di comprare un sacco di cose per la nuova casa, ho capito che la vera differenza tra la capitale e Osaka non sta nelle dimensioni o nel clima, o nell’impressione che qui la gente faccia fatica a sorridere, ma nel fatto che gli “hyaku en shop”, i negozi dove tutto costa 100 yen (circa 60 centesimi), sono merce rara. Appena ne ho scoperto uno, mi sono letteralmente catapultato dentro per fare razzia di tutto quello che da altre parti ha prezzi improponibili: posate, bicchieri, tenda per la doccia, asciugamani, tovaglie, scatolette di tonno, pomodori in scatola, portapenne, detersivo, ometti, portachiavi, tazze, perfino banane... sono tornato a casa con due buste di plastica strabordanti e il sorriso sulle labbra della massaia felice. In totale ho speso qualcosa come 15 euro. Che Budda salvi gli “hyaku en shop”, dove la confusione regna sovrana e la qualità non è di norma, ma dove uno squattrinato come me ha trovato la sua vera casa.
(Tokyo, 5 giugno 2008)

AFRICAN NIGHTS

Non capita di vedere molti africani in un Paese come il Giappone, nonostante abiti a Tokyo e non in uno sperduto villaggio dell’Hokkaido. Non capita di vederne molti a meno che non succeda di assistere, per puro caso, a due “African Nights” una di seguito all’altra. Mercoledì: sfilata di moda di un noto brand italiano accompagnata da una ventina di percussionisti senegalesi a bordo passerella. Giovedì, danzi e canti del Botswana, a coronamento di una serata di raccolta fondi per un progetto di cooperazione tra Giappone e Africa. La cosa più sorprendente in tutto questo? Vedere impettiti uomini d’affari giapponesi trasformarsi in perfetti ballerini nonostante giacca cravatta e bagde d’ordinanza al seguito. Quando uno di questi impavidi ha avuto perfino il coraggio di slacciarsi la camicia e legarsela in vita accompagnando i danzatori africani, mostrando la panzetta e battendo le mani a ritmo, ho capito che forse è il momento di riscrivere qualche libro sul comportamento sociale dei giapponesi.
(Tokyo, 29 maggio 2008)

INGENUITA' ITALIANA

Ambra, 24 anni, italiana. Segni particolari: ingenua.
L’ho incontrata in un locale di Shibuya e mi ha raccontato questa storia. Piangeva a capo chino in uno dei tanti centri commerciali di Tokyo, perché non riusciva a trovare lavoro, quando due donne le si sono avvicinate. Consolandola e promettendole che l’avrebbero aiutata, l’hanno convinta ad andare con loro in una specie di chiesa. Qui un pastore l’ha fatta genuflettere e hanno cominciato a pregare tutti insieme, dandole anche delle pacche sulle spalle per “farla pregare più velocemente”. A un certo punto il pastore, dopo averle offerto un tè, le ha spiegato che il vero battesimo è per immersione. Non so come abbiano fatto a convincerla, sta di fatto che si è ritrovata nuda avvolta in una tunica bianca, nel bel mezzo di una piccola piscina rettangolare, con la mano del pastore sulla nuca, le grida di “Alleluia” delle donne, e la testa immersa nell’acqua gelida. Una volta rientrati in cappella, altre preghiere, questa volta specifiche: “Aiuta Ambra San a trovare lavoro!”. Se qualcuno di voi avesse qualche dubbio, può rivolgersi alla “Iesu no mitama”, la “Chiesa dello Spirito di Gesù”. Giapponese doc, ovviamente.

(Tokyo, 8 maggio 2008)

TOKYO, FINALLY

La prima settimana della mia nuova vita a Tokyo l'ho passata cercando di capire come funziona questa gigantesca città, che conta ormai 35 milioni di abitanti nell'intera area metropolitana e al cui confronto Osaka sembra un paesino. Ho decisamente scoperto l'arte dello spintone nipponico in metropolitana, il divieto di fumo praticamente in ogni strada, nonché la necessità di avere un garante giapponese per affittare casa. Ho intuito anche che non è un caso, se un terzo dei giapponesi vive qui. Solo a Tokyo potevo ritrovarmi ad una "opera dinner" al tavolo con il presidente (francese) di un'importante società, un trombettista jazz (americano) e un direttore marketing (giapponese). Praticamente una barzelletta, ambientata in uno dei locali più chic della città, animato da una soprano che ha interpretato arie (italiane) famose. Dimenticavo: è praticamente inutile partecipare a un evento del genere senza "meishi", il biglietto da visita. Niente "meishi", poca credibilità. Ovviamente è la prima cosa che ho fatto stamattina.
(Tokyo, 17 aprile 2008)

SUMO

I due lottatori sono uno di fronte all'altro, chinati nella classica posizione a gambe aperte. Si guardano negli occhi, studiandosi per prendere d'anticipo l'avversario. La concentrazione è al massimo e l'arbitro (vestito di un formalissimo kimono multicolore, cappellino nero e bandierina) è a lato, immobile anche lui. Gli spettatori attendono che l'incontro abbia inizio, e nel silenzio generale cosa vedo? Un inserviente a meno di due metri dai lottatori che pulisce con una scopettina il bordo ring. Il Giappone è bello perché è pieno di contraddizioni, e il Sumo è un rituale che ne contiene tante: grazia e forza, eleganza e brutalità, massa fisica e agilità. La cosa che più affascina in questo (parliamoci chiaro) noiosissimo sport, non è tanto l'incontro, quanto la lunga preparazione ad esso, che richiama le sue origini religiose e rituali: sarà forse per questo motivo che i tornei durano tutto il giorno? Un consiglio: evitate di prendere i posti in prima fila, perché vi potrebbero arrivare duecento di lottatore direttamente in braccio.
(Osaka, 20 marzo 2008)

DIECI COSE CHE I GIAPPONESI NON AMMETTERANNO MAI

Grazie alla mia attenta osservazione e a un’indagine semiseria e senza alcun valore scientifico condotta tra alcuni amici di Osaka e Tokyo, sono arrivato alla conclusione che sono queste le dieci cose che i giapponesi non ammetteranno mai: 1. Abbiamo una naturale predisposizione a comporre file, soprattutto inutili. 2. Spesso non riusciamo neanche noi a scrivere gli ideogrammi, e ci aiutiamo con il cellulare. 3. Ripetiamo sempre le cose che l’interlocutore dice. 4. Non ricordiamo i titoli dei libri perché appena li compriamo ce li facciamo avvolgere con carta da pacchi. 5. Diciamo sempre sì, anche se la risposta è no. 6. Guardiamo senza essere guardati. 7. Facciamo finta di dormire sulla metro per non cedere il nostro posto. 8. Sfruttiamo ogni ritaglio utile di tempo per rifarci il trucco, sempre e ovunque. 9. Qualsiasi cosa le nostre donne debbano fare, sceglieranno sempre le scarpe più scomode per farlo. 10. La balena in realtà non ci piace.
(Osaka, 10 marzo 2008)

BARA ECOLOGICA

Dopo il reggiseno che, in cinque passaggi, si trasforma in borsa della spesa (ahimé non ho ancora visto però nessuna casalinga sfilarselo alla cassa e usarlo come sacchetto) la nuova moda del risparmio ecologista è arrivata a sfornare anche la bara bio. Dal momento che gran parte dei giapponesi si fa cremare, è davvero uno spreco bruciare il corpo in una bara di mogano. Da qui l’invenzione ecologista: la bara completamente in cartone. Alla modica cifra di circa 300 euro ci si può portare a casa un bel feretro cartonato con tutti i crismi per rispettare l’ambiente. Dal momento poi che per tradizione è comune bruciare anche alcuni oggetti che ricordino la persona, anche qui non ci si è fatti scappare l’occasione per rispettare l‘ambiente: il caro estinto era un amante del golf? Delle mazze da golf, con tanto di pallina, fanno al caso vostro. Appassionato di pesca o di sport invernali? Niente paura: una canna da pesca con mulinello o un bel paio di sci sono la soluzione. Il tutto? Rigorosamente in legno.
(Osaka, 29 febbraio 2008)

NOZZE IN GIAPPONE

Bisogna essere proprio convinti di sposarsi, in Giappone, soprattutto se uno dei due è straniero. Un’amica italiana ha deciso di convolare a nozze con un baldo giovanotto nipponico. Al di là del romanticismo e di tutta la poesia che ci può essere in un avvenimento del genere, per ottenere il cosiddetto visto matrimoniale ha dovuto compilare un mucchio di scartoffie che vanno ben al di là della classica procedura burocratica. Dal momento che lo sposo diventa il garante della futura moglie, oltre a documenti come stato di famiglia, certificato di nascita ecc., è necessario non solo scrivere una breve ma precisa storia della relazione (quando e dove si sono conosciuti i futuri sposi, i viaggi fatti, le esperienze avute insieme) ma anche allegare delle foto scattate in passato che ritraggano la coppia felice. E non è finita. Il questionario impone anche di rispondere nella maniera più dettagliata possibile a domande del tipo: “In che lingua parlate quando state insieme?”, “La sposa quanto sa parlare giapponese e dove l‘ha studiato?”, “Quante volte è venuta in Giappone e perché?”. Insomma, un vero e proprio terzo grado. Ma la domanda più assurda rimane: “Quando non vi capite, come fate?”. Credo che tante coppie sposate da anni non siano ancora in grado di rispondere.
(Osaka, 17 febbraio 2008)

VICINI DI CASA

Mi capita raramente di dover sostenere una conversazione in giapponese, dal momento che tutti quelli che di solito mi rivolgono la parola lo fanno perché vogliono parlare inglese. A questa regola non scritta fa eccezione il mio vicino di casa, un simpatico tipino da capelli a spazzola di una sessantina d’anni, alto non più di un metro e cinquanta. Ogni volta che mi incontra, mi saluta e mi dice qualcosa: di solito si limita a constatare le condizioni meteo, con frasi standard del genere “Che freddo, eh?”, o “Che caldo!”, a seconda della stagione. Una volta mi ha perfino fatto sapere che a Tokyo aveva nevicato. L’altro giorno però è andato ben oltre. Rientravo a casa con le borse della spesa, zaino in spalla, dopo una delle mie consuete lezioni di giapponese, durante le quali sempre più spesso mi chiedo quando arriverò a capirci veramente qualcosa, di questa strana lingua. Scoraggiato e affamato, avevo già infilato le chiavi nella porta quando il mio vicino di casa fa il suo ingresso dalle scale: maglione infeltrito marroncino fantasia, maglietta della salute color panna sotto, pantaloni “bianchi” e infradito nere. Splendido. Mi ha tenuto esattamente 12 minuti parlandomi in stretto Osakaben (il dialetto di Osaka, incomprensibile perfino a Tokyo) non so di che cosa, con me che lo guardavo e continuavo ad annuire e sorridere senza dire una parola. Solo grazie alla sua straordinaria gestualità sono riuscito a intuire (forse) dei vari problemi condominiali che lo attanagliano: coreani rumorosi, tubature rotte, pulizia delle scale. Forse.
(Osaka, 3 febbraio 2008)

LEZIONE PREPARATORIA AL DISASTRO PER RESIDENTI STRANIERI

Che i giapponesi siano organizzati ed efficienti, è uno stereotipo con una grande base di verità. Che lo siano fin quasi a diventare comici, è un dato di fatto. Lo dico perché mi sono imbattuto, tra le pagine di un piccolo giornale in inglese di annunci vari, nella pubblicità a mezza pagina della “Lezione Preparatoria al Disastro per Residenti Stranieri”. Come se non bastasse il titolo per invogliare a partecipare alla lezione, nelle righe sotto si legge: “Per prepararti ad una emergenza, perché non ti unisci alla nostra classe preparatoria ai disastri, comprendente anche un terremoto simulato di livello 7?” Già, perché?, mi chiedo anch’io. D’altronde, meglio avere le idee chiare e sapere esattamente cosa fare. “In Giappone”, mette infatti in guardia l’annuncio, “i terremoti capitano frequentemente”. La lezione, organizzata dal famigerato Dipartimento di Pianificazione e Comunicazioni, che sembra un ufficio da Grande Fratello di Orwell, è anche tradotta simultaneamente in inglese, cinese e coreano da interpreti volontari, e tutti i partecipanti saranno perfino omaggiati di un fantastico “kit per la prevenzione dei disastri”. Come mancare? Mi immagino già il classico 22enne australiano, annoiato con una birra in mano sul suo futon, che non sa proprio come passare la sua domenica pomeriggio e corre a telefonare per prenotare la sua prima lezione del corso di prevenzione ai disastri…
(Osaka, 28 gennaio 2008)

MUTANDINE

Ogni volta che guardo la tv giapponese non riesco a non scuotere la testa: telegiornali che aprono su un piccolo incidente tra auto nella periferia di Tokyo, programmi comici o pseudo tali, televendite con ogni sorta di inutile oggetto (avete presente la plastica trasparente da imballaggio, quella che si usa per evitare che piatti, vetri o bicchieri si rompano, e che in realtà è stata inventata solamente per avere il piacere di scoppiare le bollicine piene d’aria? Beh, in Giappone hanno inventato un piccolo dispositivo portatile, che funge anche da portachiavi, che simula la mitica plastichina sia dal punto di vista tattile che sonoro). Insomma, programmi del genere. L’altro giorno però hanno superato ogni limite. Servizio giornalistico da inchiesta: inquadrature strette e rallentate su un uomo in manette, racconto con dovizia di particolari sul “maniaco”, interviste a volto coperto a più donne sue vittime. Penso a stupri, violenze, abusi di ogni genere, ma non riesco a cogliere il reato di cui si sarebbe macchiato l’arrestato fino a quando, esattamente come tutte le polizie del mondo fanno, non viene mostrato sul tavolo il materiale sequestrato nella casa dell’uomo: mutandine. Viola, nere, di pizzo, celesti. Insomma, un ladro di mutandine stese ad asciugare. Ne ho parlato con qualche mia amica, ed è venuto fuori che in Giappone spesso avvengono furti di biancheria intima femminile. Non voglio neanche sapere quale pena è prevista per questo genere di reato.
(Osaka, 14 gennaio 2008)

PARTORIRO' SENZA DOLORI

Per la prima volta nella mia vita ho passato la fine dell’anno in un tempio buddista: capodanno spirituale, scandito dal suono ritmato dei tamburi, dalle luci delle lanterne, da un numero imprecisato di monaci e da un freddo glaciale. Mi sono lasciato talmente coinvolgere che ho partecipato anch’io ai riti previsti. Prima della mezzanotte mi sono fatto guidare tra i vari tempietti con divinità differenti, fino a scegliere quelli che mi sembravano più appropriati: innanzitutto il tempietto dell’acqua, poi quello dell’arte, infine quello “principale“, un po‘ per tutto. Ho lasciato cadere una moneta, ho battuto due volte le mani alzate all’altezza del petto, e tenendole congiunte mi sono inchinato due volte rimanendo in preghiera, occhi bassi, verso quella specie di altare. Non avevo con me abbastanza monete, altrimenti avrei fatto anche quello dedicato allo studio (che fa sempre bene) e del cibo (non si sa mai, è sempre meglio avere la pancia piena qualsiasi cosa si affronti).
Dopo la mezzanotte ho anche speso 200 yen per pescare un bigliettino sul quale veniva predetto il mio anno. Mi è stato assicurato che si tratta solo di un “consiglio”, un “avvertimento”, posso sempre cambiare il mio destino: sta di fatto che pare che il mio anno sarà terribile, almeno nella prima parte. Il mio punto cardinale rimane l’Est, le cose che ho perso non le ritroverò, per i viaggi non devo avere fretta, la persona che sto aspettando arriverà ma chissà quando, non sarà facile trovare lavoro, guarirò dalle malattie ma dopo un lungo periodo. Insomma, niente di buono. Le uniche cose positive? Il parto non sarà faticoso e per traslocare non c’è problema.

(Osaka, 1 gennaio 2008)

NATALE

In Giappone il Natale è una festa tutta commerciale, una vera e propria “moda” importata dall‘estero, e la vigilia è una specie di San Valentino, durante la quale è di fondamentale importanza uscire con la persona giusta, andare nel posto giusto e fare il regalo appropriato. La giornata del 24, per la prima volta nella mia vita, non solo l’ho passata lontano dall’Italia, ma addirittura in un centro commerciale, vestito da Babbo Natale, con la classica giubba rossa con i pon pon panna, cintura nera, barba bianca posticcia e sacco pieno di caramelle da distribuire ai bambini. Giravo per i corridoi preceduto da una simpatica signorina con la casacca celeste del centro commerciale, munita di stereo con canzoni natalizie tradotte in giapponese, e seguito da un giovane universitario vestito da renna. Un bel trio, a pensarci bene. Diciamo comunque che non è stata proprio come me l’aspettavo, questa mia prima vigilia lontano da casa, anche se in realtà mi sono divertito - tranne con il bambino di 6 anni che con una mazza da baseball di plastica voleva “farmi la festa“, e con il gruppo di ragazzine tredicenni che, appena mi ha visto, ha cominciato a urlare a squarciagola “Santa san, Santa san!”. Santa Claus per i giapponesi è infatti “il signor Santa”, e con il signor Santa non puoi che fare almeno una decina di foto. Il momento più commovente? Quando una bambinetta timidissima e un po’ impaurita mi si è avvicinata e mi ha dato la sua letterina, che conservo gelosamente nel cassetto.
(Osaka, 25 dicembre 2007)

NARA

Non capita spesso di essere circondati da centinaia di cervi in libertà, soprattutto in città. Ma una delle meraviglie di Nara, la prima capitale del Giappone, è proprio questa: 1200 animali (molti dei quali con le corna tagliate) scorrazzano senza problemi per strade e stradine, prediligendo ovviamente le zone con più verde. Ho percorso la strada principale, dalla stazione al tempio ligneo più grande del mondo dove c’è una statua gigante in bronzo di Buddha nella classica posizione del loto, affiancato da cervi di ogni età e grandezza. In realtà non si sono molto interessati a me, quando hanno capito che la macchina fotografica che tenevo tra le mani non era commestibile. Molto più aggressivi e disponibili con i tanti turisti che davano loro del cibo: ormai abituati a condividere gli spazi con esseri umani di ogni genere, e soprattutto a ricevere da mangiare direttamente dalle mani delle persone, non si lasciano certo pregare per accettare biscotti e biscottini offerti loro. È così che mi è capitato di vedere ragazzini urlanti rincorsi dai cugini cattivi di Bambi, mamme isteriche in preda al panico con bambini in braccio e fameliche bocche protese, anziane signore alla prese con cappotti tirati e giacche strappate. Niente di veramente pericoloso, s‘intende: il problema è che la reazione del giapponese medio fa pensare a una sciagura a ogni passo.
(Osaka, inverno 2007)

G-DAY

Qualcuno l’ha ribattezzato “G-Day” (da Gaijin - “straniero” - in giapponese) o “Foreigner- Day”, all’inglese. Sta di fatto che dal 20 novembre le regole per l’ingresso in Giappone sono cambiate: tutti quelli che vorranno mettere piede in terra nipponica dovranno sottoporsi ai cosiddetti controlli biometrici. Nello specifico, sarà scattata una bella foto e verranno prese le impronte digitali. Dopo gli Stati Uniti, il primo Paese ad adottare questo sistema post 11 settembre, il Giappone sembra avere tutto d’un tratto paura di attacchi terroristici dall’esterno, nonostante non si siano mai verificati in tutta la sua storia. Ufficialmente la nuova legge sull’immigrazione è stata fatta proprio per prevenire il terrorismo. La verità è che gli stranieri, soprattutto quelli che intendono fermarsi in Giappone a lavorare, o a studiare, per diverso tempo, non sono molto ben visti dai giapponesi doc (fortunatamente sempre meno). Lo scetticismo regna sovrano: lo straniero porta criminalità, confusione, squilibrio. Prendiamo Osaka, ad esempio: se hai una macchina fotografica e l’aria spaesata, gran parte delle persone si ferma, ti aiuta, è gentile. Ma se hai una bicicletta o il passo deciso di chi sa esattamente dov’è e dove sta andando, il discorso cambia: l’indifferenza e il distacco regnano sovrani, esattamente come tra i giapponesi. Che sia questa l’integrazione?
(Osaka, 2 dicembre 2007)

OSAKA EUROPEAN FILM FESTIVAL

Tutti pazzi per il cinema europeo. Per tre giorni Osaka si è trasformata nella capitale del cinema d’autore della Vecchia Europa, grazie alla straordinaria partecipazione di pubblico all’Osaka European Film Festival. Non potevo certo mancare, e per la prima volta da quando sono qui mi sembrava di essere tornato in Italia. Ospite d’eccezione, un’arzilla signora 87enne, attrice in un film tedesco, che è riuscita anche a partecipare, e a ballare, all’All Night Party organizzato in serata in un club. L’unico film italiano in programma parlava di immigrazione clandestina e omosessualità femminile: due temi quasi completamente estranei alla società giapponese, come hanno confermato le domande al regista dopo la proiezione.
Durante il film ci sono delle brevissime scene di ballo, quindi uno spettatore ballerino ha chiesto al regista se gli piacesse danzare. Il film si chiude in un campo di grano, e allora gli è stato chiesto se l’agricoltura costituisse per lui un valore importante. Ambientato nella zona di Udine, a un certo punto nel film viene inquadrata una grandissima sedia, una sorta di statua gigantesca. La domanda è stata, ovviamente, dove si trova. E sono convinto che a breve la zona di Udine sarà ripopolata da smanianti turisti giapponesi con macchine fotografiche e telecamere al seguito a caccia della tanto agognata sedia. Il regista, che ho avuto il piacere di intervistare prima e dopo la proiezione, faticava a rendersi conto di cosa stesse succedendo esattamente: autografi, foto, dediche. Un bagno di folla che certo non si aspettava.

(Osaka, 27 novembre 2007)

JUN

Di solito do lezioni d’italiano a studentesse di musica o casalinghe annoiate. Il 46enne di professione “studente” con il quale ho passato l’intero pomeriggio di sabato rappresenta un caso semplicemente unico: mi viene a prendere in macchina vestito con giacca in pelle rossa, maglietta della zona a luci rosse di Amsterdam, jeans bianchi con striature rosse, scarpette rosse. Dopo esserci fermati a comprare 4 caffé, due torte e dolcetti vari, mi porta in una specie di scantinato, il paradiso della paccottiglia e del disordine, con scatole sparse ovunque, libri impolverati, vassoi, oggetti vari, scaffali traboccanti e centinaia di dischi. Accende i suoi due computer e la televisione sulla BBC, sfoggia la sua macchina fotografica e sintonizza la radio su una stazione italiana. Non faccio in tempo a rendermene conto e tira fuori una scatola con una quarantina di cassette con le registrazioni di trasmissioni radiofoniche fatte durante i suoi viaggi in Italia. Alzo lo sguardo e su una parete inclinata vedo una gigantesca cartina del mondo con cerchiati i posti dove è stato, e mi spiega che parte sempre da Amsterdam per viaggiare, in macchina, ovunque gli giri: Casablanca, Istanbul, Capo Nord. Adesso studia l’italiano perché vuole andare da Milano a Taormina con la sua ragazza, a gennaio. Si alza continuamente, non segue, si cambia l’orologio tre volte, parla in inglese, francese, giapponese e quando si ricorda italiano. Ho fatto lezione a un maniaco compulsivo.
(Osaka, 17 novembre 2007)

KANON

Da quando sono arrivato a Osaka, ormai più di cinque mesi fa, non ricordo che ci siano state due giornate uguali una all’altra. Il ritmo frenetico degli avvenimenti, le persone incontrate, i luoghi visti, i volti impenetrabili dei giapponesi: ho scoperto una nuova dimensione di tempo, ma anche di spazio. Nonostante tutto, però, il giovedì sera è sinonimo di Kanon, una piccola discoteca in un seminterrato del centro, una delle poche in città a mettere musica rock e indie. Da quando l’ho scoperto non ho perso neanche un giovedì, è diventato un appuntamento fisso, immancabile. Di solito entro verso l’una, a serata avviata. I due ragazzi all’ingresso mi riconoscono, mi dirigo subito al bancone e il barista non mi chiede neanche più cosa voglio da bere perché lo sa già. Chi frequenta questo posto è più o meno sempre la stessa gente, sono poche le facce nuove. So già chi e cosa mi aspetterà: il tipo giapponese che balla sotto il dj esattamente davanti alla cassa, un altro che non sembra ballare ma fare ginnastica, tre ragazze che si muovono tutta la sera in sincro, un’altra con i capelli raccolti e con una serie infinita di tatuaggi, una coppia di amiche, di cui una si muove come una tarantolata e l’altra è un statua di sale, e tanti altri. Ormai saluto tutti come vecchi amici anche se non ricordo nemmeno i loro nomi. Dopo aver fatto chiusura sulle note di una vecchia canzone reggae, mi attende un altro appuntamento del giovedì: la ciotola di ramen bollente nel negozio all’angolo. Ma questa è un’altra storia.
(Osaka, 9 novembre 2007)

FALLIMENTI

Se sei mesi fa qualcuno mi avesse detto che avrei partecipato alla mia prima riunione sindacale a Osaka, probabilmente lo avrei preso per pazzo.
Beh, quel pazzo avrebbe avuto ragione. Quattromila insegnanti di lingua sparsi per tutto il Giappone, tra cui io, hanno perso il lavoro, a causa del fallimento della più grande scuola/azienda privata del Sol Levante, dove si insegnavano inglese, italiano, cinese, francese, tedesco e spagnolo. In attesa degli stipendi di settembre e ottobre, che non so né da chi né quando ci verranno dati, mi ritrovo disoccupato in un Paese straniero, con la vaga sensazione che la cosa non si metterà tanto per il meglio, almeno a breve. Ho scoperto che la burocrazia e le procedure fallimentari, alla fin fine, sono uguali in tutto il mondo, Giappone incluso. Non resta altro che aspettare che qualcosa avvenga, e che qualcuno ci spieghi cosa fare.
In ogni caso, comunque vadano le cose, ho deciso di restare. Perché mi piace questo posto, perché mi piacciono le persone che ci abitano, perché mi piace essere guardato quando sfreccio in bicicletta scampanellando sui marciapiedi. Mi piace sentirmi straniero, anche se in qualche modo mi sento a casa, forse perché in pochi mesi ho provato tutto quello che di solito si sente in anni: odio, amore, inquietudine, benessere, stupore, angoscia, noia, solitudine. E molto, molto altro. Tutto quello che una sola pagina di diario non potrebbe mai contenere.

(Osaka, 29 ottobre 2007)

FOGNA

Conoscevo la cucina giapponese per la sua qualità e la sua delicatezza: il cibo mira alla perfezione estetica unita alla massima semplicità. Mangiare poco e spesso, in modo elegante e raffinato, è una delle attività sempre di moda qui, complice il fatto che lo si può fare a qualsiasi ora del giorno e della notte. Mi devo ricredere quando accendo la televisione e una tipetta biondina dietro a una ciotola da 9 chili di riso e carne sorride tra un boccone e l’altro. Rimango lì impalato con il telecomando in mano, interdetto, perché non solo riesce a finire completamente il piatto, ma anche a farlo a una velocità impressionante. Si chiama Gal Sone, e scopro che in Giappone è una specie di mito. Un metro e 62 per 43 chili di peso, la dolce ventiduenne è in grado di ingurgitare quantità di cibo da record, e non assimila quasi nulla andando semplicemente in bagno. È diventata un vero e proprio fenomeno grazie a una delle tante “gare di cibo” organizzate nel paese, competizioni che vedono protagonisti soprattutto uomini, ma pare che la piccola Gal non abbia rivali in questo campo. Ha partecipato a decine di match, anche contro più persone, e ha sempre vinto. Le regole sono semplici: mangiare quanto più possibile nel minor tempo possibile. Spengo la televisione, pensieroso. Mi accorgo che è ora di cena ma mi è completamente passato l’appetito: ho ancora in mente la bocca spalancata del nuovo fenomeno giapponese.
(Osaka, 21 ottobre 2007)

MIDOSUJI PARADE

La Midosuji è una delle grandi, trafficatissime arterie di Osaka, otto corsie che attraversano la città da nord a sud, una di quelle strade dove è più facile prendere un taxi che attraversare la strada. Domenica scorsa la percorrevo a piedi, in occasione della Midosuji Parade, una manifestazione dove il trash l’ha fatta da padrone per tutte le due ore che sono rimasto: pseudo cantanti folk e rock, stravaganti ballerini, danzatori in carne e artigiani-venditori provenienti da tutta l’Asia si sono dati il cambio per allietare le migliaia di persone presenti. Con risultati a dir poco sconcertanti. Sui quattro palchi allestiti sono riuscito a vedere, nell’ordine: un gruppo di vocianti e smanianti ragazzini giapponesi che hanno trascinato in un ritmo assordante tutti quelli che passavano; una band che cantava in spagnolo, con trio di “ballerine” di flamenco sotto il palco che cercavano inutilmente di coinvolgere tutti; danze tradizionali asiatiche di gruppo con partecipanti con non meno di 60 anni. Dopo aver preso un vero caffè italiano da un improvvisato bar su un furgoncino originale Volkswagen anni ‘50, con una sorridente signorina che è anche riuscita a dirmi “ciao e grazie”, mi sono consolato nell’area dedicata ai bambini, dove sono stato a guardare i piccoli artisti con in mano pennelli e pennarelli, tutti impiastricciati con colori e tempere.
(Osaka, 19 ottobre 2007)

KOBE

Kobe è un piccolo angolo d’Europa incastonato nella regione più antica e ricca di storia del Giappone, a soli venti minuti di treno da Osaka. E a Kobe ho trovato anche una Montmartre in miniatura, uno spicchio di Francia sulle colline, con il pavè, piccole piazze, ritrattisti, giocolieri, pittori. Un vero squarcio della Parigi che più mi piace, e della quale sento più la nostalgia, con il sole autunnale e una luce meravigliosa. Sembra che un bambino si sia messo a giocare a fare l’architetto: l’aria europea, le costruzioni anni ‘50 in stile francese, il tempio buddista con annesso un ostello della gioventù, il mare in lontananza che si scorge tra i grattacieli. Insomma, un vero collage di atmosfere, che mi hanno fatto sentire in tanti posti diversi contemporaneamente. Respiravo l’odore del mare, guardavo le statue buddiste e le tegole delle case, mi giravo verso i tanti turisti coreani, e mi sono chiesto dove fossi esattamente. Girovagando con la mia macchina fotografica per questo piccolo quartiere la poesia è poi purtroppo andata scomparendo, lasciando il posto all‘incredulità. Ho scoperto infatti che questa zona è un vero e proprio luna park europeo per asiatici in cerca di esotismo: tra la casa della Danimarca, l’Hotel Vienna e la Piazza Austria, si possono visitare anche le case in stile olandese. La cosa assurda è che bisogna comunque togliersi le scarpe per entrare.
(Osaka, 6 ottobre 2007)

UNA NOTTE A BERLINO

Piove e fa freddo, anche qui è arrivato l’autunno, ma non mi lascio scoraggiare: inforco la bici, compro un ombrello al primo Seven Eleven e vado alla ricerca di una discoteca dove è prevista una serata di musica elettronica. Arrivo bagnato come un pulcino, ma soddisfatto di aver trovato il posto. Parcheggio la bici e prendo l’ascensore insieme ad altre sei persone. Al settimo piano, dopo un’attesa infinita, le porte si aprono. E’ una specie di ex capannone industriale, il soffitto stranamente alto. Sono in lista e ho una riduzione all’ingresso: solo 10 euro drink compreso. Sorrido e mi guardo attorno: il locale è piccolo, è quasi l’una ma non c’è molta gente, e la musica è bassa. Che abbia sbagliato posto? Prendo subito un cuba libre, per cercare di dare ordine alla mia serata. Mi guardo intorno e vedo una porta nera, chiusa, da dove ogni tanto esce ed entra qualcuno.
Mi dirigo da quella parte, apro e mi sembra di essere stato catapultato direttamente a Berlino, a uno di quei rave party dove è difficile capirci qualcosa: strobo gigante in mezzo alla pista vista fiume, dj occidentale, video alle pareti che proiettano non si sa bene cosa, divanetti bassi, casse alte due metri, musica psichedelica a tutto volume, luci verdi e blu che avvolgono tutto. Il resto sono dettagli.

(Osaka, 30 settembre 2007)

PER TUTTI I GUSTI

È una domenica sera come tante altre, e gironzolo per le strade strette della Osaka by night, la città che non dorme mai. Questa volta però sono accompagnato da un’amica giapponese che parla italiano, e che ha una gran voglia di spiegarmi tutto quello che la mia ignoranza della lingua giapponese non mi permette di cogliere. È così che faccio la mia conoscenza dei posti più ambigui e perversi di questa città: locali, bar, club, discoteche e anfratti vari dove un’umanità in cerca di qualcosa si confronta ogni sera. Non c’è bisogno di sforzarsi troppo, esistono perfino speciali uffici informazioni dove rivolgersi se si ha delle esigenze particolari. Alla faccia della timidezza giapponese. Le opportunità sono davvero svariate: locali per sole donne, per soli uomini, per gay, per lesbiche, o per chi ha gusti particolari (ero tentato di entrare in un posto dove il cartello di pubblicità all‘ingresso aveva una piacevole signorina vestita come una giovane cameriera vestita succintamente di rosa, poi ho desistito). Osaka è davvero un luogo camaleontico. Potrei passare tutti giorni per due o tre vie e ogni volta sono sicuro che scoprirei qualcosa di nuovo. E ne sono sicuro perché l’ho già fatto. I locali possono comparire e scomparire a seconda del giorno: basta ritirare il cartello e l’uomo/la donna/ il trans all’ingresso, spegnere i migliaia di neon che attirano, e tutto viene inghiottito e non esiste più. Fino alla notte successiva.
(Osaka, 23 settembre 2007)

GUIDA ALLA GIAPPONESE

Sto cominciando a guardare le strade, curve e rettilinei, con una certa sensazione di impotenza. Ogni giorno che passa mi sta salendo la voglia di guidare, di sentire il motore sotto di me, il vento dal finestrino e l’odore della benzina. Poi guardo le scatoline grigie a quattro ruote che girano per le strade di Osaka, guidate da ogni sorta di genere umano, e la voglia cala di colpo. Tranne che per gli stranieri, ai quali non è riconosciuta la loro, prendere la patente in Giappone non sembra essere molto difficile. Dal momento che la maggior parete delle auto qui è con il cambio automatico, hanno avuto la brillante idea di istituirne di due tipi: la “mission” (la chiamano così) per chi vuole cimentarsi con il manuale, e la “normale” per chi desidera guidare macchine con il cambio automatico. I tempi per ottenere la licenza di guida sono, ovviamente, “alla giapponese”. Esistono addirittura agenzie che promuovono veri e propri pacchetti viaggio/tour/patente, in sole due settimane, magari in una delle località più esotiche di Okinawa: veri e propri corsi intensivi di 8/10 ore al giorno dove non si fa altro che guidare. Immersi in un’atmosfera da sogno, si torna a casa rilassati e con l’agognata patente. Se poi si hanno ancora problemi, e per esempio non si è sicuri in autostrada, esistono seguitissimi “seminari” a tema per riacquistare fiducia in se stessi. Odio il cambio automatico e i tour organizzati: non sono ancora pronto per questa società, e chissà mai se lo sarò.
(Osaka, estate 2007)

JAMAICAN STYLE

Mi sarei aspettato di trovare di tutto, lungo la spiaggia vicino a Osaka dove sono andato l’altro giorno: una petroliera a trecento metri dalla riva, sabbia artificiale, mare paludoso, piccoli giapponesi intenti a costruire castelli. Ed in effetti tutte queste cose c’erano. Quello che certo non mi aspettavo era di trovare un bar in stile giamaicano con tanto di bandiere al vento, graffiti raffiguranti le meraviglie naturali della Giamaica e musica reggae ad alto volume sparata da casse da 1000 watt. Ma d’altronde sono in Giappone, e stupirsi è quasi diventato un banale rito quotidiano. I due simpatici ragazzotti locali che gestiscono il bar hanno avuto la geniale idea di trasportare una specie di grande e cadente roulotte da circo (presa da dove, non ho abbastanza immaginazione da pensarlo), piazzarla a non più di 20 metri dalla spiaggia e trasformarla in un locale. L’ho sempre detto che, quando vogliono, i giapponesi sono capaci di grandi cose. Anche perché per aumentare la capienza del posto hanno approntato una sorta di doppia impalcatura fatta di tubi e assi di legno, dove ci si può comodamente accomodare a guardare il mare. Oppure, se proprio si vuole, si può ballare, come ha deciso di fare l’amica italiana della mia collega, alla terza bevanda alcolica del pomeriggio, deliziando i presenti ballando in costume e pareo per un’ora filata e ondeggiando a ritmo. Pagherei per sapere a cosa pensava il vecchietto che sedeva di fronte.
(Osaka, settembre 2007)

JITENSHA DE

Prima di uscire dal portone di casa ho imparato a guardarmi bene a destra e sinistra, perché il rischio di essere travolti da folli guidatori di biciclette, qui ad Osaka, è davvero alto. Non solo perché il numero delle bici in città supera di gran lunga quello di qualsiasi altro posto da me visitato, ma soprattutto perché qui il ciclista ha un po’ tutti i diritti. Sono in vigore regole non scritte che è bene imparare rapidamente. Capita spesso di sentirsi scampanellati semplicemente perché stai occupando uno spazio troppo ampio di marciapiede, o perché non ti scansi immediatamente. Le bici sono ovunque, e sparse come foglie in autunno per ogni dove della città: dato che qui la criminalità praticamente non esiste, nessuno le lega a pali o ringhiere varie. Ne esistono delle più variopinte, con ogni genere di optional, dal campanello ai fanalini, dal cestino alle marce. Piccole, piccolissime, ripiegabili in più parti, anni ‘50, con ruote minuscole: tutti hanno una bici. Soprattutto le signore di mezza età, che completano il loro corredo ciclistico con improbabili guantini (neri o bianchi) fino al gomito e una ingombrante visiera calcata sul viso per impedire al sole di rovinare la pelle. Per le più raffinate, però, esiste una variante ben più elegante: una specie di braccio, montato sul manubrio, nel quale inserire l’ombrellino parasole. Mani entrambe libere, le signorotte locali sfrecciano sorridenti e perfettamente riparate dal sole. Geniale.
(Osaka, estate 2007)

NARCOLESSIA

Sono in una specie di ristorante italiano, in pausa pranzo, insieme a un mio collega inglese, in attesa che il mio piatto arrivi. Mi ritrovo a fissare una ragazza ad un tavolino all’angolo, da sola, davanti a sé un frappé alla fragola lasciato a metà, gambe accavallate, testa reclinata e braccia conserte. La fisso, distolgo lo sguardo, la osservo ancora, incuriosito: è fuori di dubbio, sta decisamente dormendo. Quando esco dal locale è ancora là, identica posizione, i folti capelli neri che le cadono sul viso, tra camerieri e clienti che non sembrano farci caso. Dovrò indagare a fondo, prima o poi, sul problema della narcolessia in Giappone, anche perché non è la prima volta che vedo una scena di questo genere. Uomini e donne di qualsiasi età sono come tramortiti all’istante, e si addormentano ovunque: in metropolitana, in macchina a motore acceso, sui muretti, al bar, sulle panchine, agli angoli delle strade, sui marciapiedi, in discoteca (giuro), addirittura in piedi in metropolitana, reggendosi alla maniglia. Un attimo prima reggono borse, ventiquattrore, sacchetti, cellulari. Un attimo dopo è come se andassero in stand-by, chiudono gli occhi, e cullati dalle braccia di Morfeo dormono come angioletti, spesso oscillando la testa a destra e a sinistra, noncuranti di tutto quello che c’è intorno a loro. Un sincero “buona notte”, vorrei avere il coraggio di sussurrare loro.
(Osaka, primi di agosto 2007)

TRATTATI CON I GUANTI BIANCHI

La prima volta che ho comprato un abbonamento mensile per la metropolitana di Osaka pensavo ci fosse stato un errore: impossibile che il prezzo fosse di 62 euro, per giunta senza la possibilità di viaggiare sull’intera rete, ma per fare solo 7 fermate. Ahimé, non c’era nessuno sbaglio. Certo, il servizio è impeccabile, e le differenze tra la metropolitana giapponese e quella di Milano sono evidenti: per esempio gli scioperi non esistono e nel remoto caso in cui un treno ritardi, i viaggiatori ricevono una “giustificazione” scritta da presentare al lavoro; sulle banchine non c‘è semplicemente un display che segnala l‘attesa, ma uno schermo dove si può visualizzare la posizione del treno in tempo reale; tutti gli impiegati, perfino quelli che ti ringraziano con un inchino ogni volta che timbri il biglietto, indossano meravigliose divise con camicia e guanti bianchi, corredate da un cappellino blu da ferroviere vecchio stile; l’aria condizionata è ovunque, e non ho ancora trovato un bocchettone non funzionante. Nelle ore di punta, poi, quando migliaia di persone tornano a casa nello stesso preciso istante, ti ritrovi schiacciato come una sardina nel vagone, un po’ come in Italia. Quello che cambia è che qui sei aiutato dai pedanti impiegati della linea, che sempre con i loro guantini bianchi, aiutano a comprimerti spingendoti dentro senza complimenti, in modo che le porte si chiudano. Tutto molto divertente. Ma caro.
(Osaka, 29 luglio 2007)

Il lavoro stanca? In Giappone uccide

da Tokyo, Paolo Soldano
(pubblicato su "Il Messaggero" il 16 giugno 2008)

I dati forniti recentemente dal ministero della Salute giapponese parlano chiaro: il numero di persone che si sono suicidate o hanno tentato di farlo a causa di stress direttamente collegabile al lavoro è raddoppiato negli ultimi 5 anni.
Aumentano i casi di depressione riconducibili all'angoscia da prestazione sul lavoro, aumentano i risarcimenti per malattie mentali dovute a ragioni lavorative: sono state 268, l'anno scorso, le persone che hanno ottenuto il riconoscimento dello status di “malati da lavoro”, anche se le domande sono state ben 952.Non stupisce dunque il fatto che il governo abbia stanziato l'equivalente di 141 milioni di euro per i cosiddetti programmi “anti-suicidi”.

In una società di questo tipo, in cui rimanere in azienda dodici ore al giorno è considerato normale e competitività e concorrenza fanno parte del vivere quotidiano, si inseriscono episodi di ordinaria follia come quello avvenuto pochi giorni fa a Tokyo, dove un 25enne ha ucciso 7 persone a coltellate dopo aver guidato il suo furgone sulla folla.

La società giapponese è forse sull'orlo di una crisi di nervi?
Nel Paese in cui il numero di suicidi è uno dei più alti al mondo (più di 32.000 persone nel 2006, secondo i dati più recenti a disposizione), forse le cose potrebbero, lentamente, cambiare. Dal primo giugno infatti la Toyota pagherà quelli che qui vengono chiamati gli “straordinari volontari”, ore di lavoro in più considerate dall'azienda un modo per incrementare la qualità, secondo il programma “kaizen” (letteralmente, “miglioramento”), introdotta dal colosso automobilistico nel lontano 1964. Controllare, aumentare e migliorare i processi produttivi, secondo la filosofia lavorativa standard giapponese, avrà finalmente un riconoscimento anche in busta paga.

Tutto è nato da una sentenza del Tribunale Distrettuale di Nagoya, che a novembre dell'anno scorso ha stabilito che la morte di un operaio della più importante azienda automobilistica giapponese fosse direttamente riconducibile al superlavoro. Nel 2002, l'appena 30enne Kenichi Uchino era stramazzato al suolo nel capannone della fabbrica dove prestava servizio, colto da infarto per aver lavorato in media 16 ore al giorno, per i quattro mesi precedenti alla sua morte.

Dopo quasi sei anni da quell'episodio, la Toyota, che fin dall'inizio del programma “kaizen” ha sempre considerato volontarie le ore di straordinario dei suoi dipendenti, ha riconosciuto che questo tipo di attività fa pienamente parte del lavoro dei dipendenti. Una decisione che, pur arrivando in ritardo e dopo le crescenti proteste, forse provocherà uno scossone nel mondo lavorativo giapponese, in cui il superlavoro è considerato un dovere sociale. E non solo alla Toyota.
Questo tipo di lavoro “volontario”, che incoraggia piccoli miglioramenti quotidiani nella produzione e nel controllo qualità e che ha portato la multinazionale giapponese al top a livello mondiale, è stato infatti gradualmente e comunemente introdotto da molte industrie, soprattutto del settore automobilistico e degli elettrodomestici.
E mentre un portavoce della Toyota ha dichiarato a un giornale locale che questo cambiamento provocherà inevitabilmente un aumento del costo del lavoro, non resta che attendere le prossime statistiche del ministero della Salute per sapere se le cose sono veramente cambiate.

Distributore di sigarette a riconoscimento facciale

da Tokyo, Paolo Soldano
(pubblicato su www.ilsole24ore.com il 23 maggio 2008)

E' nato in Giappone il distributore di sigarette a riconoscimento facciale.
La Fujitaka Co, società giapponese con base a Kyoto e presente nella maggior parte dei mercati internazionali con soluzioni tecnologiche innovative, ha progettato un nuovo sistema per impedire agli under 20 (età limite sotto cui non è consentito fumare in Giappone) di comprare sigarette.

Una piccola telecamera e un software di riconoscimento del viso, installati direttamente sul distributore, analizzeranno l'aspirante acquirente, giudicando se sia il caso di vendergli tabacco o meno. Presentata al magazine New Scientist da Hajime Yamamoto, portavoce della Fujitaka Co, la nuova meraviglia tecnologica giapponese potrebbe ben presto entrare in funzione .

"Con il riconoscimento facciale" ha dichiarato Yamamoto presentando il prodotto alla rivista New Scientist, "se sei un adulto puoi continuare a comprare le sigarette come prima, e il problema dei minori che prendono in prestito le carte di identità per acquistare le sigarette potrà così essere evitato". La macchinetta scatta una foto quando si schiaccia il pulsante "riconoscimento adulti", analizzando la faccia del fumatore: in base alle rughe, alle zone flaccide intorno a bocca e occhi e alla struttura corporea rilevate, è in grado di determinare l'età approssimativa della persona, scansionando la sua faccia e confrontandola con 100.000 volti contenuti nel database del software. Nel caso in cui il computer avesse dei dubbi, può comunque richiedere un'ulteriore verifica tramite documento d'indentità.
Provata su un campione di 500 individui di età compresa tra i 13 e i 60 anni, il software ha individuato gli "adulti" con un'accuratezza del 90%. Il progetto della Fujitaka deve avere ancora l'approvazione definitiva del Ministero delle Finanze, e arriva dopo la decisione di dare un giro di vite alla vendita di sigarette ai minori di vent' anni.

Nel frattempo, sono già stati accolti due sistemi di riconoscimento dell'età, che entreranno in funzione dal primo di luglio a Tokyo: una macchinetta in grado di "leggere" la patente, e la "Taspo", una tessera in stile carta di credito con tutte le informazioni sul compratore.
È soprattutto la "Taspo" che ha provocato dei malumori tra i fumatori, a causa del laborioso procedimento per ottenerla. Ritirati i moduli di richiesta in tabaccheria, bisogna infatti compilarli con i dati personali (allegando anche una fotocopia di un documento d'indentità e una fotografia formato tessera), spedire il tutto all'Istituto del Tabacco e aspettare l'invio della tessera.
Il progetto, partito a marzo a Kagoshima e Miyazaki e già in vigore in alcune aree del Giappone , verrà pienamente attuato a giugno nelle prefetture di Osaka, Kyoto e Nara, e a partire da luglio anche a Tokyo.I 570.000 distributori di sigarette sparsi in tutto il Paese si dovranno dunque dotare per legge di un sistema di riconoscimento dell'età, qualsiasi esso sia.

In Giappone, dove un pacchetto di "rosse" costa circa 2 euro, non esiste una legislazione che bandisca il fumo dai locali pubblici, anche se una diminuzione del numero di fumatori si è registrata dall'approvazione della "Legge sulla Promozione della Salute" del 2003. Ma se accendersi una sigaretta è permesso in quasi tutti i bar e i ristoranti, la stretta convivenza di milioni di persone ha imposto nelle grandi città ferrei regolamenti per fumare in strada: solo in zone adibite è permesso farlo. E se sono in molti ad essersi dotati di portaceneri "da taschino" nei quali buttare la cenere e la cicca una volta finita, fumare per strada in aree non consentite rimane comunque una cosa malvista.
Tra poco, anche comprare un pacchetto di sigarette non sarà più così immediato.

Crisi? le donne tagliano i capelli

da Osaka, Paolo Soldano
(pubblicato su http://www.ilsole24ore.com/ il 22 febbraio 2008)
Globalizzazione? Ricerche di mercato internazionali? Previsioni e analisi dei mercati? In Giappone, per capire come andrà l'economia, ci si affida alle acconciature femminili: capelli lunghi economia in crescita, capelli corti fase di recessione.
Sembra incredibile ma è proprio così.

Secondo un sondaggio fatto da una delle più grandi aziende giapponesi di cosmetici, che ha intervistato un campione di mille donne per le strade di Tokyo e Osaka, la tendenza è quella di portare i capelli lunghi quando l'economia sta andando bene, e corti quando sta andando male.
La società che ha condotto la curiosa analisi non è nuova a ricerche del genere: negli ultimi vent'anni ha regolarmente intervistato migliaia di donne giapponesi, chiedendo loro delucidazioni riguardo all'acconciatura e mettendo a confronto i dati raccolti con l‘andamento economico.
I risultati di tutti questi anni, soprattutto prima e dopo la "bolla economica", sono sorprendenti e non lasciano adito a dubbi.

Fino ai primissimi anni ‘90, all'apice della "bolla", il 60 % delle donne portava i capelli lunghi, mentre durante la recessione degli anni successivi i tagli corti predominavano. Dal 2002, proprio quando l'economia giapponese è tornata a crescere, i capelli lunghi sono ritornati di moda. Un caso? Sembrerebbe proprio di no, se addirittura il Nikkei, il maggior quotidiano finanziario del Giappone, ha citato la ricerca. Pare proprio che al momento fare delle previsioni ben definite non sia così facile. Il rallentamento della produzione industriale, la netta caduta negli investimenti immobiliari e le non rassicuranti prospettive dei consumi fanno pensare ad una contrazione economica in Giappone nella prima metà di quest'anno. Nonostante l'imprevista crescita registrata tra ottobre e dicembre dell'anno passato, il rallentamento dell'economia U.S.A. sulla scia della debacle dei mutui subprime potrebbe avere un bilancio negativo sulle esportazioni giapponesi.
La produzione industriale, che per la seconda potenza economica mondiale dipende proprio dalla richiesta dall'estero, ha registrato una crescita in dicembre dell'1,4%, poco meno del previsto, ma i produttori si aspettano un ulteriore calo a febbraio. Soprattutto per il primo trimestre, però, le previsioni sono alquanto altalenanti. Le discrepanze maggiori risultano infatti tra il discreto andamento dell'economia giapponese alla fine del 2007 e le considerazioni dei maggiori esperti finanziari, che prevedono una stagnazione.
Il rischio principale è che il rallentamento dell'economia statunitense peggiori più del previsto, e che ciò incida principalmente sulle medie imprese giapponesi e sui suoi lavoratori. Sono comunque in molti a dire che in Giappone probabilmente non ci sarà una vera e propria recessione, ma sembra anche che la crescita registrata negli ultimi anni sia finita.
I problemi potrebbero arrivare non solo dall'andamento dell'economia USA. Secondo le previsione del Fondo Monetario Internazionale nel 2008 la crescita mondiale si assesterà al 4,1% dal 4,4 di gennaio, proprio per l'impatto dei mutui subprime negli Stati Uniti. Più di 100 aziende giapponesi, tra cui la Sony, hanno ultimamente rivisto al ribasso le loro previsioni di crescita: oltre alla possibile recessione americana, uno yen sempre più forte, l'aumento dei prezzi del greggio e lo stagnante mercato interno sono state citate come le cause principali del ridimensionamento.Insomma: recessione, stagnazione, o leggera crescita? Sembra che sia sempre più difficile prevederlo.
D'altronde, per rendersi conto del periodo d'incertezza nel quale i giapponesi sono finiti, gli analisti avrebbero certo fatto prima a considerare la prepotente popolarità dello chignon tra le donne giapponesi.

Giappone, in vigore nuova legge sull'immigrazione. Tutti i turisti schedati

da Osaka, Paolo Soldano
(pubblicato su www.ilsole24ore.com il 20 novembre 2007 )

Molti l'hanno già ribattezzato il "G- Day" (il giorno del "Gaijin" o "Gaikokujin" - "straniero", in giapponese) o "F - Day" (da "Foreigner", in inglese). Poco cambia: dal 20 novembre è entrata in vigore la nuova legge sull‘immigrazione, che ricalca quella adottata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre. Qualsiasi non giapponese che passerà i controlli di frontiera nei 27 aeroporti o 127 porti del Giappone, sarà "schedato": a tutti, ad eccezione dei diplomatici, dei minori di 16 anni, dei militari americani in servizio nel paese, dei coreani e cinesi residenti da lungo tempo in Giappone e degli "invitati" dal governo giapponese, saranno prese le impronte digitali e verrà scattata una fotografia.

Si tratta del secondo Paese, dopo gli Stati Uniti nel 2003, a utilizzare un sistema di raccolta dei dati biometrici, battezzato Japan-VISIT, nome ricalcato dal US-VISIT (Visitor and Immigrant Status Information Technology) americano.

Nonostante gli unici attacchi terroristici registrati negli ultimi 40 anni sul suolo giapponese abbiano visto protagonisti dei nativi - a cominciare dal gruppo politico di estrema sinistra Japanese Red Army, attivo negli anni ‘70 e ‘80, per finire con la setta religiosa Aum Shinrikyo, famosa per l'attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo, nel 1995 - il governo ha adottato il provvedimento per prevenire le attività dei terroristi internazionali sul suolo nipponico.Che il Giappone sia diventato un obiettivo sensibile al terrorismo internazionale, è un dato di fatto, almeno sulla carta. Dopo l'appoggio dato agli Stati Uniti nelle missioni militari in Afghanistan e Iraq, si sente minacciato e ha perciò adottato delle contromisure.

Che però Tokyo sia un obiettivo veramente sensibile, non è poi così scontato. "Il governo giapponese ha una lunga storia nel non volere residenti stranieri a lungo termine" ha dichiarato Sonoko Kawakami, di Amnesty International, "in questo modo vuole solo avere più controllo sugli stranieri e ottenere quante più informazioni possibili sul loro conto".
Non sono poche le voci di dissenso per questa legge che qualcuno, a cominciare proprio da Amnesty International, ha definito "un insulto" e "un abuso" contro i diritti umani, in una società dove qualsiasi cosa è "pericolosa", dove la paura del "diverso" è retaggio antico e l'accettazione di stranieri non è ancora del tutto metabolizzata, anche nelle grandi città. Per molti l'equazione "straniero=terrorista" sembra essere più facile dopo l'entrata in vigore della nuova legge.
Hanno destato oltre modo scalpore le dichiarazioni del ministro della Giustizia Kunio Hatoyama, che ha recentemente sfiorato la gaffe internazionale menzionando, durante una conferenza stampa, il fatto che un "amico di un amico", noto terrorista di al Qaeda coinvolto in un attentato terroristico a Bali, negli ultimi anni sia entrato più volte in Giappone usando passaporti diversi. Il politico giapponese, che voleva denunciare la facilità con la quale molti stranieri entrano in Giappone e in questo modo suffragare le scelte del governo, è riuscito a far rientrare le polemiche dichiarando di non aver mai incontrato personalmente il terrorista, e che "l'aneddoto" gli è stato riferito "da un amico".

Cosa sarebbe successo se uno qualsiasi dei nostri ministri avesse detto cose del genere? Certo la reazione non sarebbe stata come quella del Primo Ministro Yasuo Fukuda, che ha semplicemente dichiarato che Hatoyaka ha parlato "in modo inappropriato, senza tener conto di dove fosse". Oltre alle polemiche "di diritto", legate alla tolleranza dei giapponesi verso gli stranieri, e a quelle politiche, la scelta di schedare i visitatori ne ha suscitate altre.
Fin dall'aprile dell'anno scorso il parlamentare Hosaka Nobuto, del Partito Democratico Sociale giapponese, ha infatti chiesto spiegazioni al governo, attraverso ripetute interrogazioni parlamentari, riguardo all'appalto per il nuovo sistema biometrico. Sembra infatti che la Accenture Japan Ltd, società delle Bermuda legata alla nota società di consulenza (ex Andersen Consulting), prima sia stata richiesta come consulente, e poi abbia vinto l'appalto aggiudicandoselo per la cifra di 100.000 yen (circa 600 euro).
La domanda che si son posti in tanti è: come è possibile? Solo 600 euro per sviluppare (e mantenere) un sistema del genere? Le spiegazioni date a riguardo sono lacunose, e molti parlano di "mistero": prima è stato detto che il prezzo così basso era dovuto alla comprovata esperienza della società per questo genere di sistemi (nonostante la Accenture abbia lavorato solo con gli Stati Uniti); poi è venuto fuori che il prezzo così competitivo era visto in termini di investimento, contando sul fatto che anche tutti gli altri paesi asiatici, e non solo, adotteranno il sistema biometrico.
Indipendentemente dalle polemiche, rimane il fatto che il nuovo provvedimento molto probabilmente minerà l'efficienza giapponese: sarà difficile non causare disagi agli 8 milioni di visitatori, che, la maggior parte via aereo, ogni anno visitano il Giappone.