Mi capita raramente di dover sostenere una conversazione in giapponese, dal momento che tutti quelli che di solito mi rivolgono la parola lo fanno perché vogliono parlare inglese. A questa regola non scritta fa eccezione il mio vicino di casa, un simpatico tipino da capelli a spazzola di una sessantina d’anni, alto non più di un metro e cinquanta. Ogni volta che mi incontra, mi saluta e mi dice qualcosa: di solito si limita a constatare le condizioni meteo, con frasi standard del genere “Che freddo, eh?”, o “Che caldo!”, a seconda della stagione. Una volta mi ha perfino fatto sapere che a Tokyo aveva nevicato. L’altro giorno però è andato ben oltre. Rientravo a casa con le borse della spesa, zaino in spalla, dopo una delle mie consuete lezioni di giapponese, durante le quali sempre più spesso mi chiedo quando arriverò a capirci veramente qualcosa, di questa strana lingua. Scoraggiato e affamato, avevo già infilato le chiavi nella porta quando il mio vicino di casa fa il suo ingresso dalle scale: maglione infeltrito marroncino fantasia, maglietta della salute color panna sotto, pantaloni “bianchi” e infradito nere. Splendido. Mi ha tenuto esattamente 12 minuti parlandomi in stretto Osakaben (il dialetto di Osaka, incomprensibile perfino a Tokyo) non so di che cosa, con me che lo guardavo e continuavo ad annuire e sorridere senza dire una parola. Solo grazie alla sua straordinaria gestualità sono riuscito a intuire (forse) dei vari problemi condominiali che lo attanagliano: coreani rumorosi, tubature rotte, pulizia delle scale. Forse.
(Osaka, 3 febbraio 2008)