Prima di uscire dal portone di casa ho imparato a guardarmi bene a destra e sinistra, perché il rischio di essere travolti da folli guidatori di biciclette, qui ad Osaka, è davvero alto. Non solo perché il numero delle bici in città supera di gran lunga quello di qualsiasi altro posto da me visitato, ma soprattutto perché qui il ciclista ha un po’ tutti i diritti. Sono in vigore regole non scritte che è bene imparare rapidamente. Capita spesso di sentirsi scampanellati semplicemente perché stai occupando uno spazio troppo ampio di marciapiede, o perché non ti scansi immediatamente. Le bici sono ovunque, e sparse come foglie in autunno per ogni dove della città: dato che qui la criminalità praticamente non esiste, nessuno le lega a pali o ringhiere varie. Ne esistono delle più variopinte, con ogni genere di optional, dal campanello ai fanalini, dal cestino alle marce. Piccole, piccolissime, ripiegabili in più parti, anni ‘50, con ruote minuscole: tutti hanno una bici. Soprattutto le signore di mezza età, che completano il loro corredo ciclistico con improbabili guantini (neri o bianchi) fino al gomito e una ingombrante visiera calcata sul viso per impedire al sole di rovinare la pelle. Per le più raffinate, però, esiste una variante ben più elegante: una specie di braccio, montato sul manubrio, nel quale inserire l’ombrellino parasole. Mani entrambe libere, le signorotte locali sfrecciano sorridenti e perfettamente riparate dal sole. Geniale.
(Osaka, estate 2007)