Dopo quasi un anno di permanenza nella terra del Sol Levante, ho visto tante di quelle insegne, in italiano, strane e sgrammaticate che la metà basterebbe: si va dai nomi dei ristoranti come “Lotteria”, “Il buco di muro”, “Benino”, “La casa dei fiore di patata”, alle riviste femminili tipo “Vivi”, “Crea”, “Domani”, o la familiare “An An”. Ma è lì dove meno le si aspettano che arrivano le cose più strambe. Come vuoi chiamare un parrucchiere, se non “Fico”, “Il piacere” o “Mi dica”? Un negozio di tende e tessuti? “Pene” vi sembra troppo forte? Non per i giapponesi. E che ne dite del motorino “Dio”, del “Palazzo Building” o del bar “Vulva”? D’altronde, da un popolo che ha un mensile maschile intitolato “Tarzan” ci si può aspettare di tutto, come il “Caffè Elevato”, il ristorante “Capra Ciccio” o il manga “Vagabondo”. Passiamo ai love hotel: dal geografico “Mar Egeo” al futuristico “Domani”, la mia preferenza cade senza dubbio al più romantico “Noi”, seguito dal realistico “Arpia”. Dimenticavo: un’importante azienda di cosmetici si chiama “Fancl House”. Il prossimo capitolo sui nomi in inglese.
(Tokyo, 2 maggio 2008)